Le primarie della fine del mondo

Contrariamente a quanto avevo scritto ieri, non sarò a Torino, da Sel.
Ringrazio Marco Grimaldi e chi mi ha invitato e mi scuso con chi prenderà parte al dibattito, ma oggi è un giorno difficile, per motivi che superano anche il dovere (e il piacere) di fare politica.
Mi dispiace non esserci perché osservo una grande incertezza.
La mossa di Pri-Mario-Monti (salutata con gioia da una parte consistente del Pd), l’assemblea nazionale del 6 ottobre appesa al filo dei numeri e di convocazioni tipo fine del mondo (così come la lettera di immediata preclusione che abbiamo ricevuto, che invita a non presentare ordini del giorno, per evitare ‘problemi’), le parole di Nichi Vendola che su Repubblica si interroga sul valore e l’utilità di queste primarie («Sulle primarie sto molto pensando. Nei prossimi giorni deciderò. Non so se siano una possibilità per ridare speranza all’Italia»), il comitato elettorale di chi è in vantaggio e che scalpita e si spinge a ragionare di liste autonome, il silenzio assordante della non-campagna del segretario, che rinvia ogni iniziativa e che chiede un megapremio elettorale perché teme di non avere i voti nelle urne, il pullulare di candidature e la richiesta di candidarsi che proviene anche a me a ogni istante.
Come se poi, tanto, non fosse vero quello che stiamo facendo. E come se non ci fosse un dopo, a cui lavorare tutti quanti, sulla base di un disegno politico non dico convincente, ma almeno comprensibile. E, da ultimo, come se tutto finisse, il 2 dicembre, o forse in altra data, perché anche sulla data ci sono versioni diverse e gli oracoli democratici non concordano nemmeno su questo.
Non so perché ma questo clima da Primaya, come scrivemmo qualche tempo fa, inquieta, più per i risultati a cui non porterà che per i sondaggi sul chi le vincerà.
Perché manca un progetto condiviso, non c’è una coalizione, non c’è un’idea condivisa circa il sistema elettorale e sulle modalità con cui si costruirà il prossimo Parlamento (eppure la rappresentanza dovrebbe essere il primo dei problemi, no?), non c’è uno sguardo in avanti che sappia motivare chi come me pensa che la politica debba tornare, ma non come prima, ma come non l’abbiamo più conosciuta. E che l’unico premio a cui possiamo ambire non è quello di un sistema elettorale, ma di una proposta politica chiara, italiana ed europea nello stesso momento, capace di mobilitare le persone e di ridurre – non aumentare, come stiamo facendo – la loro incertezza. Perché alle persone non interessa la fine del mondo, interessa la fine del mese. E vorrebbero sapere che cosa faremmo noi, e con chi, per cambiare le cose.
In questi mesi, anziché rinviare la discussione, avremmo dovuto parlare delle regole e dei partecipanti di questa nostra competizione e di un progetto politico che ci unisse tutti, per scegliere poi il candidato che meglio lo sa interpretare, che lo orienta nel modo più efficace e più rappresentativo del centrosinistra. E invece colpisce che tutta la discussione di queste ore riguardi la partecipazione al voto dei delusi di centrodestra, come se non ce ne fossero a sufficienza, di delusi, anche dalle nostre parti. Perché vale la pena di ricordarlo ancora una volta, il problema principale non è quello di evitare che qualcuno in più vada a votare, ma che ci siano buoni motivi per far tornare quelli che a votare non ci vogliono andare più.
Se non c’è uno schema a cui tutti si rifanno, non vi può essere nemmeno il confronto. E la divisione a quel punto rischia di portarci molto più lontano, in un luogo dove non esiste più la sinistra, e dove la politica si annulla, per lasciare spazio ad altri. Come se quegli altri, poi, non fossero politici, non avessero una ideologia. Come se la tecnica non avesse conseguenze sulla vita delle persone. Che non c’è bisogno di Heidegger (che presto si candiderà alle primarie, potete starne certi), per capirlo.
Di questo avrei parlato, e parlerò nei prossimi giorni. E spero lo facciano anche gli altri, prima che tutto prenda una piega che non ha molto senso. E che può condurci alla più clamorosa e ridicola tra le sconfitte elettorali (e soprattutto politiche) di tutti i tempi.

Giuseppe Civati

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