La sinistra e la cultura a Papi tramortito*


    Dunque, dove eravamo rimasti? Adopero questa domanda (forse) retorica, che – a proposito del mio bagaglio culturale – è anche una doppia citazione televisiva (per chi abbia la fortuna o la sfortuna di coglierla), per dire di un percorso interrotto che adesso, a Papi politicamente tramortito, si può riprendere. E l’interrogativo metaforico, l’avrete intuito, allude al quasi Ventennio quasi passato: a quel coloratissimo, scintillante, abbagliante buco nero per la cultura, il pensiero, la mente, lo spirito, che è stato l’Evo berlusconiano. Inghiottito infine dal proprio Nulla liftato, così da consentirci di rimetterci in marcia verso la conoscenza. Tranquilli: per ricorrere ad un’altra citazione catodica, le so tutte! Non le risposte, come intendeva quel comico usa-e-getta di Zelig (sempre a proposito del mio background culturale), ma le obiezioni. La prima, tipica, obbligatoria, automatica, speziata col raffinato retrogusto gaberiano (in realtà alloisiano**, per la precisione filologica) a base di “Non temo Berlusconi in sé ma il Berlusconi in me”, recita: “Se è finito Berlusconi, non è finito il berlusconismo”. Obiezione che si porta molto, forte della propria verità relativa e della propria spinta propulsiva alla condivisione facile da social network. Ma, anche, obiezione parzialmente smontabile con una considerazione per me incontrovertibile: meglio un berlusconismo senza Berlusconi di un berlusconismo con Berlusconi. Ossia: un conto era l’istigazione quotidiana, sistematica alla non-cultura, all’idolatria dell’immagine, al consumismo selvaggio, alla mercificazione di corpi e “idee” praticata direttamente dall’Unto solo al comando; un altro sono, saranno il retaggio, i postumi, le scorie di quell’esercizio in assenza di Lui. Se si spegne il primo motore immobile e fardato del Pensiero Zero, si procede ancora un po’ per inerzia, ma decelerando inesorabilmente fino alla sosta propedeutica ad una ripartenza con cambio di direzione, se non con conversione a U. E poi lo stiamo sperimentando direttamente col governo Monti: ammesso e non concesso sia, come dicono i compagni della sinistra dura e pura, la prosecuzione del governo Berlusconi con altri mezzi – bancari e comunque più destrorsi ancora – di politica economica, è innegabile che anche solo antropologicamente non evochi cene eleganti con uso bungabunga. Così come linguisticamente: da Palazzo Chigi (non più Grazioli) risuonano altri discorsi, altre espressioni, altre accezioni per parole come “Stato”, “Legge”, “Giustizia”, “Evasione fiscale”, “Comunità”, “Integrazione”, “Scuola”: un altro vocabolario. Un’altra cultura, per l’appunto.
    La seconda obiezione, avanzata spesso in subordine, arretrando dalla prima, è: “Ma siamo proprio sicuri che Lui sia finito?”. E qui, previa autorizzazione ad abbandonarvi ai più osceni gesti scaramantici del caso, la mia risposta è lievemente meno argomentata: “Sì”. Con, a richiesta, il gadget di successivi brevi incipit iterativi muniti di puntini di sospensione riempibili a piacere: “basta guardarlo… ”, “basta guardare i suoi…”, “basta non poter più guardare Emilio Fede…”, e basta così, perché non mi va di infierire troppo.
    L’obiezione numero tre è più suggestiva, anche perché più fondata, e di solito incomincia così: “Sì però, la sinistra…”. I puntini di sospensione, qui, sono riempibili a dispiacere: inserendovi, cioè, tutte le sgradevoli ma inevitabili imputazioni mosse a noi, spesso anche da noi, riguardo la mancata o limitata opposizione al non-pensiero berlusconiano. Quei puntini sono pronti ad accogliere i vari “è stata subalterna”, “omologata”, “non alternativa”, “fotocopia”, “inciucista”, e via (auto)fustigando. Per carità, tutto abbastanza vero e – di conseguenza – tutto abbastanza falso, perché semplificatorio e pure un po’ smemorato. Intanto, perché si trascura un dato di fatto: il quasi Ventennio politico del fu Premier Papi fu l’approdo finale del precedente Decennio televisivo. È lì che si posero le basi dell’egemonia “culturale” della destra di sgoverno. Dicono e diciamo, ora: non l’avete, l’abbiamo contrastata abbastanza. Ma dicevano e dicevamo, allora: attenti a non essere troppo chiusi, critici, antichi, retrogradi, barbogi: la modernità passa anche da lì. Ed aggiungevano, aggiungevamo, a “discesa in campo” (a proposito di egemonia lessicale) avvenuta: no alla demonizzazione! Altra parolina vincente dell’epoca, non solo brandita da Lui, primatista planetario di vittimismo feroce, per inibire qualsivoglia minima opposizione politica (per non dire inchiesta giudiziaria); ma – soprattutto – detta e ridetta, scritta e riscritta a mo’ di mantra ventennale da commentatori “terzisti” ed editorialisti “super partes”: per gli accigliati, liberali scrutatori in servizio permanente effettivo dei limiti della sinistra, una sinistra che – ogni tanto, timidamente – diceva no a quel modello arcoriano, era una sinistra che lo demonizzava e, quindi, una sinistra fuori dalla Storia. Ecco: ora magari gli stessi sostengono o sussurrano che la sinistra, nel quasi Ventennio, non è stata abbastanza alternativa. Se è così, e per me in parte è così, è anche per “merito” loro e delle loro prediche apologetiche per il non demonizzabile Capo. Malgrado le quali, comunque, una resistenza c’è stata: mentre la cultura veniva tagliata a colpi di accetta, con sfregi di puro teppismo ministeriale propedeutici all’edificazione del popolo-teleutente, mentre si proclamava con agghiacciante fierezza la superfluità della cultura in quanto non commestibile, fuori dai Palazzi bungabungheschi, nelle città, nelle comunità, nelle scuole, ci si ostinava a non arrendersi, si elaboravano idee, si costruivano consapevolezze, si tessevano relazioni di ideali e significati ritrovati, con passione e dedizione, parole non a caso al femminile (“Se non ora, quando?”). Banalmente: si spegneva la tv e si (ri)accendevano i cervelli ed i cuori. Si resisteva dal basso, dalle persone, dagli addetti ai lavori ed ai valori, spesso dalle amministrazioni comunali della sinistra demonizzante che, con tutti i suoi limiti, ma anche con tutto il suo coraggio, faceva dei tagli economici subìti virtù, sforzandosi – come si è sforzata qui a Genova – di tenere in vita i teatri, di sostenere i Festival, di non abbandonare le fondazioni culturali. In attesa che la nottata passasse, diverse luci sono rimaste o si sono accese. Mi sembra un buon punto dal quale ripartire.

    da Malumorismi 

    *testo letto agli Stati Generali della Cultura organizzati dal Partito Democratico a Genova, il 21/04/2012
    **relativo a Gian Piero Alloisio, cantautore genovese che ha firmato alcune canzoni interpretate da Giorgio Gaber

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