Bersani e il Pd tra piazza e Facebook

A Roma, stamane, sarà Pier Luigi Bersani a parlare ai segretari dei circoli Pd per dir loro di tenersi pronti in vista della morte di Sansone e di prepararsi alla piazza, alla grande manifestazione - la tradizionale spallata al governo - da tenere entro la fine di novembre. A Firenze, ieri, sono stati invece Wile il coyote e Boris (pesce rosso di una serie tv politicamente assai scorretta) a illustrare - diciamo così - il punto di vista del tandem Renzi-Civati e dei loro «rottamatori» sulla crisi del berlusconismo e sulle cose da fare.
Bersani, Renzi e Civati militano, come è noto, nello stesso partito: e messa così, verrebbe anche da ridere. In realtà, in casa democrats c’è poco da star allegri: anche se ha ragione il giovane sindaco di Firenze quando giura che «si possono dire cose terribili e serissime anche col sorriso sulle labbra». Berlusconi docet. Due grandi adunate di partito nello stesso giorno; due modi di intendere la politica assai distanti; due vocabolari così diversi da far crescere il rischio dell’incomunicabilità. Il tutto, appunto, ancora dentro lo stesso partito: e la questione, adesso, sarà capire se queste diversità possono ancora essere portate a sintesi e diventare una ricchezza o se già siano - in controluce - la premessa per altri dolorosi addii. «Noi siamo gli unici - assicura Civati - a minacciare di voler restare...».
C’è da credergli, per il momento. Ma è un momento che durerà all’infinito: come altri abbandoni e altre separazioni hanno dimostrato a sufficienza. In fondo, le adunate degli eterodossi di Firenze e degli ortodossi di Roma (è una semplificazione, ma forse aiuta a capire) mettono in piazza e sintetizzano il problema dei problemi del Pd: partito a vocazione maggioritaria, nato per unire e amalgamare, e invece alle prese con l’acutissima difficoltà a far convivere al proprio interno le sue tante diversità: i laici e i cattolici, i riformisti e i radicali, i vecchi e i giovani, gli ex comunisti e gli ex popolari e - non paia una bestemmia, perché potremmo esserci vicini - «quelli del Nord» e «quelli del Sud». Diversità che sono già state l’anticamera di dolorosi addii; e che appaiono controllabili con sempre maggior fatica, in assenza del potentissimo collante rappresentato dal potere e dal governo, e impossibili da «mettere in riga», da parte di leadership che mai potranno avvicinarsi all’onnipotenza di Berlusconi (e pure da quella parte si comincia ad apprezzare quanto anche l’onnipotenza abbia i suoi squallidi rovesci e i suoi limiti).
Tutto questo lo si vedeva bene, ieri, nella vecchia e bellissima stazione Leopolda di Firenze, dov’è in scena (e il termine è davvero appropriato) «Prossima fermata Italia», inedito raduno post-moderno di rottamatori veri e rottamatori per caso. All’appello di Renzi e Civati hanno risposto anche dirigenti dei circoli che avrebbero dovuto essere invece a Roma: non è grave, forse è addirittura utile e comunque non è questo il punto. Il punto sono la filosofia, la regia e l’anima di questa tregiorni: tutta interventi (un centinaio e più) di cinque-minuti-cinque, spezzoni di film, cartoni e gag tv, facebook e Internet dappertutto, Renzi e Civati a intervallare il dibattito da una consolle come si fosse in discoteca.
Si può storcere la bocca, come accadde di fronte ai cieli azzurri della scesa in campo di Berlusconi; si può sorridere, come ancora accade, di fronte a un certo «parlar facile», assai diretto e nient’affatto «politichese». Ma forse il Pd ha poco da ridere, da un po’ di tempo in qua. E fossimo nello stato maggiore dei democrats, forse scruteremmo nel raduno fiorentino per vedere se c’è qualcosa - un linguaggio, un’idea, uno stile - che possa esser utile alla riscossa. Quando è tempo di vacche magre, dicono nelle campagne emiliane, non si butta via mai niente. Nemmeno se a offrirti qualcosa è qualcuno del quale - a torto o a ragione - in un altro tempo non ti saresti fidato mai...

Federico Geremicca
da La Stampa

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