Veneto, no ai trapianti per gli handicap gravi

Uno scivolone, l’ennesimo, che stavolta ha fatto fare all’Italia una figuraccia davanti al mondo scientifico internazionale. Uno scivolone e un uso maldestro - preferiamo pensarla così - delle parole e del loro significato che hanno costretto la Lega a a ingranare la retromarcia. L’handicap e il trapianto Questa la storia: nell’allegato A delle «linee Guida per la Valutazione e l’assistenza psicologica in area donazione -trapianto» del marzo 2009, la Regione Veneto ha escluso dai trapianti di organo le persone con danni cerebrali irreversibili; quelle con ritardo mentale fissando il quoziente intellettivo inferiore a 50 e coloro che hanno tentato da poco il suicidio. Fattori questi ritenuti «controindicazioni assolute».
Di questa gravissima discriminazione non se ne è fatta parola fino a quando due docenti cattolici del Gemelli di Roma, Nicola Pannocchia e Maurizio Bossola e uno psicologo dell’Università della California, Giacomo Vivanti, non hanno sollevato il caso raccontandolo su una delle più prestigiose riviste americane, «American Jorunal of Transplantation». «Non c’è nessuna prova scientifica che giustifichi l’esclusione dal trapianto delle persone con disabilità intellettiva - hanno argomentato i tre professori -, tanto più che il quoziente intellettivo, con cui si determina l’entità del ritardo mentale, non è uno strumento idoneo». C’è chi si è chiesto se l’Allegato A non fosse il frutto di un tentativo di stabilire un improbabile quanto assurdo limite invalicabile tra il diritto al trapianto e la sua negazione spiegandolo con la limitatezza degli organi. Ora, se è vero che può non aver senso trapiantare organi in un malato affetto da metastasi e dunque con una previsione di vita estremamente breve, è pur vero che trasferire questo criterio a persone con un quoziente intellettivo inferiore a 50, o con un tentativo di suicidio alle spalle, assume contorni ben diversi.
Intanto confligge con quanto prevede la Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dal nostro Parlamento nel marzo 2009: «Le persone con disabilità hanno il diritto di godere il più alto standard conseguibile in salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità». Non solo: a queste persone va fornita «la stessa gamma, qualità e standard di servizi e programmi sanitari, gratuiti o a costi sostenibili forniti alle altre persone». Parole chiare, inequivocabili, per il resto del mondo, non per la giunta Veneta che dopo aver scatenato la protesta di medici, consiglieri Pd, Radicali e associazioni di famigliari di portatori di handicap psico-fisici, è stata costretta a correre ai ripari, senza rinunciare tuttavia a tentare di scaricare le proprie «leggerezze» su altri. «Oramai è chiaro che quella del Pd è una vera e propria campagna ideologica perché, nel merito, non si spiega altrimenti il fatto che ci sia ancora qualcuno che si ostina a non vedere, non sentire e non capire che le linee guida del Veneto in materia di trapianti non discriminano assolutamente nessuno», ha infatto sostenuto l’assessore alla Sanità Luca Coletto annunciando che di questo polverone sollevato qualcuno «dovrà assumersi la responsabilità».
Sta di fatto che le cose dette una base di fondamento dovevano averla se la stessa Giunta si è affrettata a emanare, lo scorso 3 giugno, una «circolare applicativa» relativa proprio all’Allegato A nella quale non compaiono più le «controindicazioni assolute», ma anzi, si scrive che il documento è «fondamentalmente rivolto a garantire, in ogni possibile condizione, il più alto livello assistenziale possibile». Si scrive anche che, laddove ci si trovi di fronte a condizioni cliniche «che compromettono la capacità del paziente di comprendere le implicazioni del trapianto», devono scattare misure di assistenza post-trapianto tali da garantire tutta l’assistenza medica e psichica necessaria al paziente. E se non esistesse una rete familiare e sociale in grado di far fronte a questo percorso, «sarà necessario coinvolgere, da parte degli operatori del Centro di riferimento, tutta la rete di sostegno sociale pubblica».
L’assessore ritiene «stupefacente che ci si continui ad attaccare alla dicitura scientifica “controindicazioni assolute”», e teme addirittura che questo polverone possa allontanare la gente «dal concetto di donazione come atto d’amore». I consiglieri regionali Pd, Piero Ruzzante, Pigozzo e Azzalin, che hanno presentato un’interrogazione urgente e denunciato il tutto in una conferenza stampa, sono di diverso avviso. «Questa è la prima vera vittoria nella nuova legislatura dal parte del Pd- commenta Ruzzante -. ma ancora non basta: ora chiediamo che la circolare applicativa diventi parte integrante delle linee guida della Regione sulla regolazione dei trapianti». Che si cancellino, cioè, due parole.

Maria Zegarelli
da L'Unità

IGNAZIO MARINO: "CON QUELLE REGOLE NON AVREI SALVATO MOLTE GIOVANI VITE"

È molto semplice: se negli Stati Uniti ci fosse stata una direttiva come quella della Regione Veneto non avrei potuto salvare la vita a molte persone». Va subito al sodo Ignazio Marino, senatore Pd e presidente della commissione Sanità del Senato ma soprattutto chirurgo di fama grazie a una vita passata oltreoceano nei migliori centri al mondo per il trapianto di fegato. «In quel documento ci sono passaggi allarmanti o, quanto meno bizzarri perché totalmente privi di senso».
Ad esempio?
«Il fatto che non si possa sottoporre a trapianto d’organo chi ha tentato di recente un suicidio: è il punto 6 delle controindicazioni assolute. Proprio così: assolute. O una persona con quoziente intellettivo inferiore a 50: è il punto 3. Sa cosa vuol dire? Che pazienti del genere non dovrebbero nemmeno essere messi in lista, scartati a priori».
Perché lo hanno fatto?
«La spiegazione più semplice è che hanno commesso un errore; la più inquietante, ma temo la più vera, è che in Italia siamo tornati a un clima di discriminazione, lo stesso che provai sulla mia pelle una decina di anni fa».
Si spieghi meglio.
«Il 17 luglio 2001, prima volta in Italia, feci un trapianto di rene su di un paziente sieropositivo. Mi beccai una censura dal ministro della Sanità, Girolamo Sirchia, e venne proibito a tutti i centri di trapianto di effettuare simili interventi. Fu un atteggiamento grave due volte. Il primo perché non si tenne conto di uno studio in cui si mostrava che, almeno in America, la stragrande maggioranza dei chirurghi era favorevole ai trapianti in pazienti sieropositivi. La seconda che si introduceva una discriminazione nei confronti di un gruppo di pazienti».
E questo perché?
«Alla base di questi atteggiamenti c’è sempre un elemento di razionalità. Un organo è un bene prezioso, impagabile: quindi si fa di tutto perché venga trapiantato in un paziente che abbia la possibilità di beneficiare al meglio di quel dono, di vivere bene e a lungo. Il punto è che questi criteri devono obbedire a valutazioni mediche non ideologiche».
Facciamo un esempio.
«Se una persona ha un tumore primario al fegato è giusto intervenire con un trapianto perché così si rimuove la causa del suo male. Se il tumore primario è invece nell’intestino e nel fegato sono comparse metastasi, il trapianto epatico è inutile perché il fisico è compromesso e, soprattutto, non ho rimosso la causa del tumore».
Torniamo alle linee guida della Regione Veneto.
«Il principio di base, come ho detto, è condivisibile. Quello che va rifiutato, con nettezza, è quanto indicato nell’allegato A dove nell’elenco delle controindicazioni assolute compaiono delle situazioni in cui si interviene normalmente».
Lei lo ha fatto?
«Certo. Quand’ero negli Stati Uniti ho salvato la vita a molti giovani che avevano tentato il suicidio ingerendo grandi quantità di farmaci che provocano necrosi epatica, cioé la morte delle cellule del fegato. In questi casi il paziente va in coma irreversibile e muore poco dopo: l’unica soluzione è il trapianto di fegato, proprio quello che le linee guida della Regione Veneto vorrebbero negare con l’espressione “recenti tentativi di suicidio”. È un controsenso: un giovane veiene in ospedale in quelle condizioni proprio perché ha tentato il suicidio. E tu che fai: anziché salvargli la vita agiti il foglio della Regione Veneto davanti agli occhi dei suoi genitori? Non solo, ma tutti i pazienti che ho operato non hanno più ritentato il suicidio: se la paura è quella di “sprecare” un organo, diciamo che i dati parlano chiaro. Chi ha avuto un trapianto capisce in pieno il valore della vita».
Torniamo all’altra controindicazione, quella del quoziente intellettivo inferiore a 50.
«Anche qui hanno confuso una controindicazione relativa con una controindicazione assoluta. Nei centri che ho diretto il quoziente intellettivo era un fattore da prendere in considerazione ma solo per decidere come intervenire, come operare. Ho ancora davanti agli occhi un paziente, maggiorenne, affetto da sindrome di Down: aveva paura di tutto, quando vedeva la siringa per il prelievo del sangue andava nel panico. Con l’aiuto degli psicologi e della madre siamo riusciti a operarlo e a salvarlo. Certo, sarebbe stato più facile scartarlo, dire “no grazie, lei è nella lista vietata”. Ma è questo quello che deve fare un medico?».
La Regione Veneto però ha fatto marcia indietro e ha emesso un circolare interpretativa che, di fatto, invita i medici a considerare questi casi, non più come vietati, ma come situazioni da valutare con attenzione.
«I medici sanno benissimo come interpretare le parole: la circolare interpretativa è un passo avanti ma non basta. Bisogna che le linee guida vengano rifatte daccapo. Anche per un altro motivo».
Quale?
«Le linee guida sono uscite nel marzo 2009 ma il caso è esploso solo dopo un articolo molto critico apparso sull’American Journal of Transplantation , la più importante rivista scientifica nel settore dei trapianti. Gli stranieri non vanno per il sottile: ciò che accade in Veneto accade in Italia. Quel documento ha gettato una brutta ombra su tutto il Paese. Prima ce ne liberiamo, meglio è».

Maria Zegarelli

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