Ma svilire il Senato non cancellerà i nostri mali

Riportiamo lo spunto di riflessione segnalatoci... anche se si può ribattere che, invece, l'abolizione del bicameralismo perfetto sia una riforma necessaria.
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PD Merate

La necessità di fare in fretta e furia le riforme costituzionali è davvero nel cuore degli italiani come viene ossessivamente ripetuto dagli scranni alti e bassi di chi esercita il potere politico? È così dissennata l’opinione che nuove leggi di somma importanza per la struttura e l’essenza stessa di una democrazia parlamentare come la nostra debbano essere portate a compimento soltanto quando i problemi del vivere quotidiano sono risolti e gli equilibri politici e sociali ripristinati?
Quelle riforme — il Senato da rendere impotente, soprattutto — non sembrano davvero utili a far sì che milioni di persone abbiano un lavoro, che centinaia di migliaia di giovani all’avventura ritrovino speranza nel futuro, che le imprese possano funzionare senz’affanni, con la dovuta normalità. Hanno piuttosto l’aria di essere un alibi. La legge elettorale, quella sì necessaria, rifatta dopo anni simile al disastroso «Porcellum», è ancora dimezzata, approvata alla Camera, non ancora al Senato.
Le strombazzate riforme utili, come sembra, a dar maggiori poteri all’esecutivo, non servono a risolvere i nostri mali. Pochi giorni fa il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha detto che i problemi centrali del Paese sono sempre «la crescita e l’occupazione». E la Commissione europea ha chiesto lunedì scorso «uno sforzo aggiuntivo» dello 0,2% per il Pil nel 2014. Non occorre aver frequentato la London School of Economics per capire che la crisi non è ancora finita, nonostante le vanterie elettorali.
Non capita a quegli uomini e a quelle donne — le omologate ministre del governo Renzi, tutte uguali, nel vestire, nell’aspetto, nel porgere, spesso nel non sapere — di guardare i volti preoccupati e ansiosi delle persone, al Nord, al Sud, nelle grandi città, nelle aree metropolitane, nelle piccole città, nei paesi, di entrare in un supermercato, di salire su un tram, di osservare gli operai di una fabbrica al primo turno, alle 6 della mattina, timorosi ogni volta di trovare i cancelli sbarrati perché l’azienda si è trasferita in Polonia, in Corea, altrove.
La distanza tra la società politica e i cittadini è incommensurabile. I partiti che hanno rappresentato, fino a una ventina di anni fa, un essenziale polo di aggregazione sociale, esercitano ora una funzione di pura forma al servizio personale di un capo che cerca di togliere di mezzo quel che rallenta i suoi voleri. Si capisce soltanto così la volontà di trasformare il Senato della Repubblica in una qualsiasi e futile assemblea di soci, non più eletti dal popolo, come prescrive la Costituzione, ma scelti e nominati dai vertici istituzionali. Si cancella in questo modo la ragione di essere di un’assemblea — lo sa chi l’ha frequentata — che ha una rilevante (identica) funzione di controllo sull’altra Camera, spesso utilissima. Il Senato potrebbe essere riformato nel regolamento, nel funzionamento — tante cose, ripetitive, burocratiche, vanno cambiate — ma deve esser lasciato com’è soprattutto per quanto riguarda l’eleggibilità.
La crisi è profonda. Non soltanto politica: morale, civile. La precarietà è madre della depressione, della passività, della rassegnazione, della paura. Manca il fervore, indispensabile per ricominciare dopo vent’anni di illegalità che ci hanno portato in fondo al pozzo. Non serve l’ottimismo di maniera se manca la sostanza, se le promesse non vengono mantenute, se i modelli del fare sono i pasticci dell’Imu e della Tasi.
Renzi, si dice, è il nuovo, «l’uomo dei sogni», come scrivono certi giornali. Gli oppositori interni ed esterni al suo partito sono saltati subito sul suo Carro di Tespi. La sua capacità di farsi intendere, nello stile di Berlusconi, è indubbia. Gli eredi del vecchio Pci non avevano mai ottenuto il 40 per cento dei voti. Solo che molti elettori non hanno votato per Renzi, ma contro i cosacchi di Grillo, il grande propagandista del premier. Il futuro è incerto, il governo delle larghe intese non è il modello di quella chiarezza di cui il Paese ha necessità. Non sappiamo nulla, ad esempio, del patto del Nazareno tra il presidente del Consiglio e Berlusconi: «Uniti finché morte non li separi»?
Lo Stato si regge su travature tarlate. Aveva ben ragione Berlinguer quando sosteneva che la questione morale è questione politica.L’ha ricordato qualcuno dei celebratori nei giorni appena passati?
Se ci si guarda intorno si prova sgomento. Il già ministro degli Interni Scajola in galera; l’altro ministro (di Monti), Clini, per decenni potente uomo dell’amministrazione, agli arresti domiciliari; Dell’Utri, l’uomo ombra di B., condannato a 7 anni, fuggito nel Libano; B. ai blandi servizi sociali decretati da una pavida sentenza del Tribunale di sorveglianza di Milano che non rende onore alla legge uguale per tutti. E poi, i dirigenti dell’Expo in manette; i banchieri, il già presidente della Carige e vicepresidente dell’Abi Giovanni Berneschi finito in prigione anche lui. E, dulcis in fundo, per ora, il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, e i responsabili del Mose implicati in reati contro la pubblica amministrazione. Ovunque le guardie mettono il dito incappano nei ladri del sistema.

Come si fa a ricostruire un Paese se le palafitte sono marce? 

di Corrado Stajano, da il Corriere della Sera, 5 giugno 2014

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