III° Momento -Continua la marcia di avvicinamento alle elezioni europee 2014
Dunque
ormai è deciso: il Pd aderirà al Pse.
Ciò che non aveva fatto un segretario proveniente dai Ds lo farà un segretario
proveniente dalla Margherita. La cosa ci sta, e per tanti motivi razionali e
strumentali lo si capisce anche. La direzione nazionale ratificherà una
decisione che è già stata presa e che nessuno potrà più mettere in discussione,
dopo che Renzi, Letta, D’Alema e Cuperlo l’hanno annunciata più volte.
Vista da Bruxelles sarà un “ritorno a casa”
senza festeggiamenti e sacrifici di vitelli grassi perché non è il caso. Vista
da Roma, sarà raccontata come una “scelta obbligata” perché in Europa da una
qualche parte bisognerà pure accasarsi: per la verità si tratta di un argomento
vecchio, a suo tempo motivatamente liquidato, ma quelli erano tempi in cui il
Pd aveva una qualche ambizione di “cambiare il mondo”. A chi non è d’accordo e
non è abituato a fondare un altro partito quando si trova in minoranza, non
resta che la libertà di dirlo, e io lo dico, anzi lo ridico.
Un partito che rinuncia alla sua originalità
Ritengo infatti che si tratti di una scelta
sbagliata non per ragioni teologiche, come invitava a fare Massimo D’Alema
nella peraltro molto bella conversazione con Guido Moltedo, ma per ragioni
politiche. Il Pd rinuncia infatti alla sua originalità, prende atto cioè che è
fallita nel senso che non si è adeguatamente realizzata, e con molto realismo
rinuncia ad ogni ambizione e organizza questo viaggio, che per taluni
rappresenta un ritorno a casa e per altri realizza la curiosità di «tornare là
dove non sono mai stato» (come dice una poesia di Giorgio Caproni).
Mi rendo conto che una simile discussione si
è nel frattempo talmente illanguidita e svalutata al punto che oggi a quasi più
nessuno interessa, probabilmente (e auspicabilmente) nemmeno agli elettori, di
sinistra e di centro. E, peraltro, a me pare che si sottovalutino gli effetti
sistemici della presunta “normalizzazione” del Pd: non è la sua socialdemocratizzazione
a fare problema ma, appunto, la sua normalizzazione che lo fa diventare un
partito come gli altri. Rattrista l’idea che in un momento di grande crisi
dell’Europa si rinunci a un qualsiasi tentativo di modificare il quadro come se
dalla crisi si potesse uscire tornando a precedenti schemi novecenteschi
largamente usurati dalla storia.
Lo spazio della innovazione è stato infatti
lasciato all’iniziativa di altri: mi riferisco ad esempio a quella promossa nel
Parlamento europeo da Guy Verhofstadt (Alde) e Daniel Cohn-Bendit (Verdi) di
costituire un Gruppo Spinelli, con l’obiettivo di rilanciare il processo di
integrazione dell’Ue, anche grazie a uno steering committee di
cui fanno parte Jacques Delors, Joschka Fischer, Pat Cox, Ulrich Beck, Amartya
Sen, Mario Monti e Romano Prodi. Dalla crisi dell’Europa infatti si può uscire
solo rilanciando un’idea più contemporanea di Unione e non un accordicchio fra
vecchie sigle in gran parte responsabili dell’attuale palude. Del nuovo gruppo
Altiero Spinelli fortunatamente fanno parte anche molti (ma non tutti)
parlamentari del Pd italiano, senza però avere alle spalle il sostegno
consapevole del loro partito.
Parliamo di regole
Ma torniamo al Pse. Rinunciamo a infierire
sul fatto che ormai si è ridotto a rappresentare partiti socialisti nazionali
prevalentemente in minoranza nei loro paesi e fortemente disuniti sulle
strategie europeiste, non per una contingenza storica sfortunata, ma per un
immobilismo strategico che non intreccia più il consenso delle opinioni
pubbliche nazionali, nemmeno in un tempo di profonda crisi economica e, in
particolare, occupazionale come l’attuale: il recente accordo fra Cdu/Csu e Spd
in Germania, in cui i socialdemocratici hanno accettato di occuparsi delle
politiche di welfare nazionale in cambio della delega alla Merkel delle
strategie comunitarie, è l’ultimo esempio di un atteggiamento
incomprensibilmente rinunciatario proprio sul terreno su cui la Spd avrebbero
potuto rappresentare un punto di coagulo di tutte le forze progressiste del
continente, dopo il fallimento di Hollande.
A questo punto non resta che auspicare che,
nella definizione delle “regole di ingaggio” per l’ingresso del Pd nel Pse,
compaia l’impegno non solo a cambiare il nome di quel partito (visto che anche
i tedeschi sono d’accordo), ma a cambiare la strategia europeista del partito,
o quantomeno a darsene una che qualifichi una qualche apprezzabile distinzione
rispetto a quella dominante negli ultimi anni.
Facciamo un esempio concreto: la candidatura
di Martin Schulz alla presidenza della Commissione a mio avviso dovrebbe essere
valutata seriamente, non solo perché trattasi di un leader tedesco che potrebbe
astrattamente diventare presidente alla sola condizione che la Merkel lo
designi commissario in rappresentanza del suo paese e, proprio per tali
ragioni, non facile da far passare nelle opinioni pubbliche degli altri paesi
Italia compresa, ma perché il fronte del Ppe sta accingendosi a designare come
candidato allo stesso incarico Jean Claude Juncker, un leader di valore, vero
cristiano sociale che in passato non ha esitato a opporsi apertamente alla
strategia Merkel/Sarkozy, già presidente del governo lussemburghese oltreché
dell’eurogruppo, con serie prospettive di risultare il primo degli eletti. A quel
punto che succederà?
È vero che non saranno le elezioni europee
del prossimo maggio a scegliere definitivamente il presidente della
Commissione, ma il parlamento a seguito di specifica designazione del Consiglio
europeo dove, peraltro, siedono capi di stato e di governo in grande
maggioranza appartenenti al Ppe e, proprio per ciò, non sarà probabile che
venga scelto il “miglior perdente” (Schulz, appunto). Ma, si obietta, in quel
caso, Schulz potrebbe prendere il posto di presidente del consiglio (attualmente
occupato da Herman Van Rompuy) o quello di rappresentante per le politiche
internazionali (ora occupato da Catherine Ashton).
Lasciamo perdere ogni valutazione moralistica
sul commercio delle poltrone, ma chiediamoci piuttosto se non convenisse allora
sacrificare altro candidato del Pse alle elezioni per poter giocare la carta Schulz nella
successiva mediazione? Se ne può parlare o è già tutto deciso? Il Pd deve
proprio entrare a tavola apparecchiata? È poi evidente che lo strutturale
consociativismo a livello di Parlamento europeo fra Ppe e Pse è destinato a
diventare ancora più stringente (altro che larghe intese!) dopo il previsto
ingresso di un consistente gruppo di parlamentari euro-ostili in rappresentanza
di partiti che potrebbero risultare addirittura vincenti in Francia (Marine Le
Pen), Olanda (Geert Wilders) e Regno Unito (Nigel Farage), senza dire dei
previsti buoni risultati in Italia (M5S e Lega), Finlandia (il partito dei Veri
Finlandesi) e Germania (l’Alternative für Deutschland): si può discutere la
strategia per fronteggiare un simile evento largamente previsto?
C’è un disegno “rifondatore” della Ue?
Il Pd è altresì in grado, e ne ha la voglia,
di porre al Pse il problema del cambio di strategia dell’Europa nell’area
centrale dove la rinata vocazione imperiale di Putin (vedi caso Ucraina) mette
in discussione gli equilibri di sicurezza definiti dopo il crollo del Muro, e
nell’area del Mediterraneo dopo il crescente disimpegno strategico degli Stati
Uniti? Di ottenere dal Pse una iniziativa politica coraggiosa volta a cambiare
la strategia meramente monetarista dell’Unione, nei termini seri posti dal
presidente Napolitano nel discorso a Strasburgo? La segreteria del Pd, insomma,
ha un disegno per nobilitare una scelta che non può essere o anche solo
apparire come frutto di improvvisazione, pigrizia o inerzia? Sino ad oggi la
scelta di stare “con il Pse ma non nel Pse” aveva l’obiettivo di indurre un
“oltrepassare” da parte del Pse della propria identità ideologica rivelatasi
usurata e inefficace, con scarsi risultati è giusto riconoscerlo, ma domani
“dall’interno” si pensa di poter fare di più? Come? Interessa capire come?
Mi pare che chi oggi assume la responsabilità
di una scelta che oggettivamente cambia l’immagine, e non solo, del partito,
debba almeno dire a quali condizioni si realizza. Non alludo certamente ai
ruoli “conquistati” nell’organigramma di un partito europeo abbastanza
insignificante, come la gran parte degli altri partiti per la verità, la cui
guida è non a caso oggi affidata a un oscuro dirigente politico proveniente
dalla tradizione della sinistra della Bulgaria, che peraltro pochi conoscono.
Mi riferisco espressamente alle condizioni
politiche e alle ambizioni strategiche di questo partito per il futuro
dell’Europa. Non è neppure necessario organizzare seminari e studi per averne
idea, basta leggere gli ultimi lavori di Joseph Weiler, Ulrich Beck, Anthony
Giddens e Jürgen Habermas, o anche solo i sei numeri della serie completa 2013
de Il Mulino per capire quali proposte porre sul tavolo e
verificare se il Pse si vuole fare carico di un tale disegno “rifondatore”
dell’Unione oppure no. In quel caso l’adesione del Pd – che io comunque
continuo a ritenere un errore – recupererebbe almeno un senso politico.
E. Mazzucchelli
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