L’IMBROGLIO ELETTORALE.

Le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha “bocciato” il Porcellum si prestano a due ordini di valutazioni: quello strettamente giuridico-costituzionale, e quello culturale e politico.
Attenendomi ovviamente al secondo aspetto, le motivazioni della sentenza costituiscono un chiaro atto di accusa nei confronti delle forze politiche (ed in modo particolare, nei confronti delle maggiori), per il modo col quale queste, negli ultimi decenni, hanno messo mano alle diverse leggi elettorali che si sono succedute nel tempo. E, a ben vedere, costituiscono al tempo stesso una diffida a cambiare strada ed a evitare di continuare a sviluppare l’arte di imbrogliare gli italiani imponendo loro costruzioni barocche e condizionate prioritariamente dall’aspirazione di ciascuno a trarre dalla legge elettorale il massimo vantaggio, o il minimo svantaggio.

Le motivazioni della sentenza muovono da una semplicissima considerazione: quella che, se il concetto di governabilità è insito nei principii logici sui quali si fonda la Costituzione, risultando quindi meritevole di tutela, e se quindi l’ordinamento che alla Costituzione fa seguito non può disattendere la necessità che il Paese sia governato, tale concetto non può essere esteso in modo irragionevole sino al punto di violare i fondamenti-cardine di qualsiasi democrazia: quello della rappresentanza e quello della libera scelta dei cittadini-elettori nella selezione dei propri rappresentanti.
Tale affermazione è rilevantissima: essa conferisce sostanza giuridica a ragionamenti e considerazioni politiche e culturali che molti di noi hanno sviluppato in questi anni, e va dato pieno merito a chi, ad iniziare da Felice Besostri e da Aldo Bozzi ha operato con costanza e determinazione perché tali considerazioni si traducessero in una sentenza che riafferma quanto dovrebbe essere ovvio, oltreché etimologicamente insito nel termine: che cioè la democrazia non si fonda sull’intermediazione di caste che presumono arbitrariamente di rappresentare il popolo, ma sul popolo stesso, attraverso un mandato che questo direttamente conferisce.
Il fatto che per affermar ciò che è ovvio sia stata necessaria una lunga battaglia in termini di diritto, condotta in nome dei principii fondamentali della nostra Costituzione e nonostante lo scetticismo e l’indifferenza delle forze politiche testimonia quanto sia profondo il deficit di democrazia del nostro sistema politico.
Ma il fatto di esservi alla fine riusciti, indica anche come l’impianto della nostra Costituzione sia attuale e tutt’altro che da considerare unicamente come il risultato di una situazione storico-culturale oramai lontana nel tempo.

Detto ciò, le motivazioni della sentenza della Consulta aprono la strada a conseguenze giuridiche ed a conseguenze politiche attorno alle quali necessariamente si svilupperà la discussione circa il nuovo sistema elettorale.
Ma, a questo punto, occorre fare attenzione: la sentenza doveva limitarsi ad affermare l’inviolabilità di un principio generale, come ha fatto, ed a riscontrarne o meno la violazione nella normativa attuale. Essa non si è pronunziata, né poteva farlo, per un sistema elettorale piuttosto che per un altro, il che resta competenza del Parlamento, ed il fatto che essa non abbia precluso la strada, in via di principio, alle tre alternative lanciate da Renzi non significa che esse siano di per sé le uniche conformi alla Costituzione.
Qualsiasi sistema elettorale che non violi il principio generale espresso dalla Corte è infatti in via di principio compatibile con l’impianto costituzionale; e, quale che sia il sistema elettorale si intende proporre, è necessario che nel suo effettivo realizzarsi venga rispettato il principio generale che la Corte ha sancito: verifica cui, quindi, anche le tre alternative proposte dal PD, devono venir sottoposte.

Il che è compito politico, nel momento in cui è chiaro a tutti che, a suon di clausole, distinguo, quote, soglie, diventa più che possibile, pure in una legge elettorale a prima vista rispettosa dei principii che la Corte Costituzionale ha sancito, far rientrare dalla finestra quel che la Consulta ha buttato fuori dalla porta.
E non mi sembra infondata l’opinione che proprio in questa direzione ci si stia muovendo:
Difatti, se si esaminano nel concreto e nel dettaglio le tre alternative fatte proprie dal PD (Sindaco d’Italia, pseudo sistema spagnolo, Mattarellum rivisitato), si scopre che tutte e tre, esattamente come il Porcellum, prevedono l’abbinamento del premio di maggioranza, che dovrebbe assicurare la governabilità a soglie minime di ingresso determinate esplicitamente o di fatto.
Infatti:
·        Nel caso del “sistema dei sindaci”, basato su un doppio turno di coalizione, verrebbe previsto da un lato un premio di maggioranza (sino al 60%) alla coalizione vincitrice, ed una soglia di ingresso del 5% (ma, si badi bene, non riferendosi alla coalizione, bensì alla singola formazione politica).
·        Nel cosiddetto “sistema spagnolo”, fondato su piccole circoscrizioni di 4-5 parlamentari ciascuna, verrebbe previsto un premio di maggioranza del 15%, ed una soglia di ingresso del 5%, che verrebbe ad aggiungersi a quella del 20% automaticamente determinata dal fatto che per ottenere un rappresentante in una circoscrizione, occorrerebbe ottenere almeno 1/5 dei voti in quella circoscrizione.
·        Infine, nella rivisitazione del Mattarellum, oltre a quelli determinati dai 475 collegi uninominali, i restanti 155 seggi, verrebbero attribuiti per i 3/5 (92 seggi) come premio di maggioranza, ed i residuali 63 seggi verrebbero lasciati come premio di consolazione a tutte le formazioni minori. Il che è come dire che una quota di elettorato pari probabilmente al 20-25% degli aventi diritto vedrebbe più che dimezzata la propria rappresentanza.

E’ evidente che, con tali proposte, ben pochi sarebbero in ogni caso i progressi rispetto al Porcellum.
La questione diventa ancor più grave, se si considera la questione lapalissiana che, quale che sia il sistema elettorale, chi non è candidato, non sarà mai eletto. E tutti questi sistemi sono tali da lasciare ancora un eccessivo spazio agli apparati di partito nello stabilire le candidature: ci ricordiamo, ai tempi del Mattarellum, i famigerati “tavoli” dei due poli, nei quali alcuni signori per ogni polo censivano i collegi in categorie di certezza, e li attribuivano stechiometricamente alle diverse forze politiche? E, ove si pensi al sistema “spagnolo”, chi e come stabilirà i 4-5 nomi per ogni circoscrizione?
Se il Porcellum era tale che circa l’80% dei futuri deputati era già eletto (cioè nominato) all’atto del deposito delle liste, nella migliore delle ipotesi, l’uno o l’altro di questi sistemi, farà scendere tale percentuale attorno al 50-60%. Il che, francamente, sembra ancora un po’ troppo.

E poi, non si riesce a capire per quale ragione, una volta che un premio di maggioranza abbia assicurata la cosiddetta governabilità, a questo debbano ulteriormente aggiungersi le soglie di sbarramento nei confronti delle formazioni minori. In effetti, l’esperienza dell’ultimo ventennio ha dimostrato che i premi di maggioranza non assicurano affatto la governabilità: non sono tanto i “nanetti” di Sartori a creare complicazioni, ma piuttosto l’inconsistenza politica di partiti-contenitore che, avendo per obbiettivo primario la propria perpetuazione, finiscono per l’essere di fatto incapaci di produrre effettivi indirizzi politici percepibili e misurabili dagli elettori. Viene meno così la capacità di guida politica di coalizioni che, a questo punto, sono tenute insieme, finché dura, solo dal reciproco interesse. E quella di falciare i cespugli diventa così una necessità, non della governabilità, ma del perdurare di un sistema politico incapace di produrre classe dirigente, e capacissimo invece di produrre ed autoriprodurre caste di potere.

Che questa interpretazione sia più che fondata è dimostrato dalla legge elettorale per le Europee, con la quale, tra pochi mesi, andremo a votare.  Lanciata in primis dal PD, fu approvata frettolosamente a ridosso delle elezioni europee del 2009, dopo che le politiche del 2008 avevano prodotto, grazie al PD, la sconfitta del centrosinistra e la fuoriuscita dei socialisti e dell’intera sinistra dal Parlamento, ed invece assicurato la sopravvivenza di IdV.
Qui non era, e non è, in gioco alcuna questione di governabilità. Il principio della rappresentanza politica dei cittadini-elettori dovrebbe quindi valere in via assoluta, senza alcun correttivo dettato dalla necessità di assicurare maggioranze: gli eletti al Parlamento Europeo rappresentano i cittadini degli Stati-membri, le loro convinzioni, i loro interessi. Eppure, è stata fissata una soglia del 4% per accedere alla ripartizione dei seggi.
E’ come dire che chi non rappresenti 2,4 milioni di cittadini, o 1,5 milioni di elettori, non ha diritto a rappresentarli: come dire che un corpo di cittadini di dimensioni ben superiori a quelle di non pochi Paesi-membri non abbia il diritto di essere rappresentato, senza che ve ne sia alcuna plausibile motivazione, se non quella delle forze politiche maggiori di escludere la possibilità di sopravvivere delle formazioni minori. Come io scrissi a quei tempi, una volta falciati i cespugli con il Porcellum e con l’applicazione che il PD ne aveva fatto, occorreva un buon diserbo per impedire che questi potessero riaffiorare.

Ora, se è vero che non esiste un sistema elettorale perfetto, e che abbiamo democrazie ben più salde della nostra che operano con sistemi elettorali diversissimi, è anche vero che la tipologia del sistema elettorale non è l’unico aspetto a determinare i caratteri del sistema politico. Altrettanto importanti, a tal fine, sono le norme che codificano l’accesso all’elettorato passivo (presentazione liste e candidature, raccolta firme, etc.) e le modalità di svolgimento delle campagne elettorali (utilizzo, costo, e ripartizione, degli spazi di comunicazione). E, altrettanto importanti, come già si è detto, sono le condizioni in cui si svolge la vita interna dei partiti politici.
Quindi, il principio generale che la Corte Costituzionale ha affermato nelle motivazioni della sua recente sentenza, perché sia reso effettivo, deve essere valutato in termini politici e concreti, tenendo conto dell’intero quadro che regola la questione della selezione della rappresentanza, e quindi: legge elettorale, diritti di accesso all’elettorato passivo, vita interna dei partiti.
Nel nostro Paese, i partiti maggiori hanno eretto ad ulteriore difesa da eventuali nuovi intrusi un muro di norme sulla presentazione di candidature e liste sovente contraddittorie, e facilmente eludibili da chi disponga di apparati adeguati (vedi i casi della Regione Piemonte, della Lombardia, del Lazio), e la democrazia interna dei partiti è quella che tutti conosciamo.
In tali condizioni, è evidente quanto risulti difficile la candidatura, e di fatto preclusa la candidatura in posizioni di eleggibilità a chi sia sgradito agli apparati, ed è evidente quanto risulti difficile per una ipotetica nuova formazione il presentarsi in tutte le circoscrizioni o in tutti i collegi.

Di conseguenza, quale che sia il sistema elettorale scelto, a meno che non si tratti di un proporzionale puro con preferenza, o che preveda al più il minimo indispensabile di premio di maggioranza, e senza alcuna soglia di sbarramento, le effettive possibilità di libera scelta e di diritto ad esser rappresentati per i cittadini risultano comunque fortemente limitate e compresse.
A ben vedere, il vizio dell’ingovernabilità, che è stato attribuito alla tanto vituperata legge elettorale della Prima Repubblica, è dipeso più dalle questioni interne al partito allora stabilmente di governo, che dalla presenza dei partiti minori, e men che mai dalla presenza di un forte partito di opposizione.

Su questi problemi, le forze politiche farebbero bene a domandarsi seriamente se non sia il caso di cominciare ad avviare una riflessione, anziché continuare a cercare la via demagogica di cercare di utilizzare la giusta indignazione dei cittadini per ridurre gli spazi di rappresentanza.
Ed i cittadini farebbero bene a non cadere nella trappola della falsa corrispondenza che si tende a propinar loro: quella che il ripristino dell’efficienza e la riduzione dei costi della politica richiedano la riduzione degli spazi di rappresentatività politica.
L’esercizio della democrazia ha un costo, e si fonda su procedimenti complessi che richiedono la compresenza di poteri in grado di bilanciarsi e, se necessario, di contrapporsi; ma tale costo, e tale complessità, in una democrazia che operi riuscendo a definire adeguatamente indirizzi politici ed economici, ed a selezionare una adeguata classe dirigente, risultano di gran lunga inferiori, dal punto di vista dell’interesse generale di un Paese, e non di quello di singole caste, a quelli di qualsiasi altro sistema.


Gim Cassano, 
Alleanza Lib Lab, 17-01-2014

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