Riparare l’errore

L’emergenza economica dunque non è finita. Sarebbe gradita qualche autocritica da parte di chi ha posto lo scalpo dell’articolo 18 in cima all’agenda politica. Anche da parte del governo che, pur di lanciare un segnale ai «mercati» (segnale non pervenuto), ha sacrificato una ragionevole intesa che avrebbe rafforzato, quella sì, l’immagine del Paese.

Speriamo almeno che si ripari presto al danno. Anche perché la coesione sociale resta la migliore garanzia di efficacia per le misure innovative sul mercato del lavoro, che ora il Parlamento deve vagliare e migliorare. I più recenti interventi di Mario Monti sembrano messaggi di pace rivolti almeno alla sua maggioranza. Meglio un premier che recupera la sobrietà rispetto ad uno che accende polemiche. Ma la prova decisiva sarà nei fatti.
Il testo della riforma ancora non è stato presentato in Parlamento (ritardo non proprio lodevole, che rinverdisce la pratica di precedenti governi). Sarebbe una sorpresa positiva se Monti riconoscesse l’errore e, da subito, conformasse al modello tedesco la modifica dell’articolo 18. Si temono invece ulteriori pasticci, con correzioni parziali che rischiano di complicare il quadro giuridico. Tuttavia il giudizio finale spetta alle Camere. E in quella sede andrà ricomposto lo strappo sociale. In caso di licenziamento immotivato o ingiusto, il reintegro nel posto di lavoro va reinserito quantomeno come sanzione a disposizione del giudice. È già un segno di grande apertura dei sindacati (che il governo avrebbe fatto bene a valorizzare) la disponibilità ad inserire l’indennizzo economico come sanzione alternativa. Del resto questa soluzione abbasserebbe la barriera che oggi divide il mercato del lavoro sulla base delle dimensioni di impresa e potrebbe persino limitare il contenzioso giudiziario (come avviene in Germania). Comunque un punto è chiaro fin d’ora: se Monti vuole davvero una soluzione condivisa, deve riportare il reintegro nell’articolo 18. In caso contrario imboccherà la strada della rottura: e sarà una scelta politica, non tecnica.
La coesione sociale resta una riserva di energie per l’Italia. È incomprensibile il deprezzamento che ne viene fatto da chi sostiene che i diritti, come i corpi intermedi, sono un costo che dobbiamo ridurre. Se la crisi economica persiste, se non bastano mai i compiti a casa, se le dotazioni del fondo salva-Stati sono sempre insufficienti come la liquidità della Bce, come si può sostenere che lo scalpo dell’articolo 18 possa restituire competività al Paese attirando investimenti esteri?
La verità è che questa discussione non ha come orizzonte l’uscita dalla crisi ma il governo dell’esistente. I mercati non attendono certo che alla pesante manovra correttiva del dicembre scorso (i cui effetti non si fermeranno alle addizionali Irpef, ma presto verranno incrementati dalla stangata Imu e speriamo non sfocino in un aumento dell’Iva a ottobre) si aggiungano dei simboli ideologici. I mercati aspettano l’inversione di tendenza rispetto alla recessione in atto.
È questa la vera priorità nell’emergenza. È questo il cuore del mandato del governo Monti. La coesione politica e sociale è condizione perché si possa cambiare l’agenda del Paese e concentrare le forze sullo sviluppo, che vuol dire contrastare l’illegalità, ridurre il peso fiscale sul lavoro, accorciare i tempi dei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni, consentire ai Comuni virtuosi di riprendere i loro programmi, etc. Si possono ancora chiedere sacrifici agli italiani, ma solo a condizione di ridurre le diseguaglianze e le insopportabili ingiustizie fiscali. Si può lavorare insieme nella transizione a condizione che le ricette sbagliate dell’Europa di centrodestra non vengano presentate come dogmi di fede.
Monti ha detto che i partiti dovranno continuare i compiti anche dopo il 2013, quando il suo governo non ci sarà più. Se voleva dire che l’Italia non potrà deragliare dalla ricerca di una maggiore competitività e da un serio controllo dei conti pubblici, ha perfettamente ragione. Ma se i compiti sono le solite politiche recessive, se sono quelli che non consentono all’Europa di uscire dalla crisi, allora speriamo proprio che i paradigmi cambino. E che il centrosinistra possa tornare al governo presentando una proposta alternativa, più orientata alla crescita, più europeista, più attenta alla dimensione sociale. Siamo troppo piccoli per questa ambizione? La dimensione dell’alternativa è oggi europea. L’Europa sì che può farcela a rompere la spirale rigore – recessione – impoverimento – diseguaglianze. Ma il centrosinistra italiano può contribuire a questo progetto insieme alle altre forze progressiste del Continente. È questa la sfida del 2013. Che comincia anche per noi con le prossime elezioni francesi.

Claudio Sardo
da l'Unità

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