Il dopo Monti comincia oggi

Vent’anni fa Mani Pulite fu l’innesco della Seconda Repubblica. Ma hanno avuto poco di storico le celebrazioni dei giorni scorsi: piuttosto sono diventate un duro confronto sull’oggi. Perché sono tante le similitudini con l’Italia dei primi anni 90. A partire dalla corruzione, tuttora a livelli insopportabili. Anche le promesse sul cittadino-arbitro sono state deluse da una torsione costituzionale di segno populista.
I partiti, quelli sì, sono stati colpiti, delegittimati (e molto ovviamente hanno messo del loro). Ma non ha tratto beneficio la qualità della democrazia. Semmai nel ventennio ha trovato impulso una spaventosa crescita delle disuguaglianze sociali: e chi può negare oggi l’evidenza di una connessione tra l’egemonia liberista e i miti iper-maggioritari, spacciati entrambi come vettori di libertà per tutti? La sinistra è uscita malconcia dal confronto-scontro con le forze prevalenti sul mercato. Eppure negli anni Novanta ha giocato le sue carte. E da noi può anche vantare di aver ricostruito una prospettiva europea per l’Italia.
Nella vittoria si può incubare la sconfitta futura. E nella difficoltà si può costruire il successo di domani. La nascita del governo Monti nel contesto della crisi politica e finanziaria dell’Europa reca un segno di opportunità. Berlusconi è stato sconfitto, e con esso l’ipotesi di un blocco populista, a trazione nordista fino a indebolirne il carattere nazionale, senza confini a destra eppure garante di equilibri nel fragile capitalismo italiano.
Il nuovo governo, nato con l’apporto determinante del centrosinistra, è una chance per il Paese. Ma è anche un terreno di battaglia politica. Come dimostrato sin dal primo decreto salva-Italia. Ora gli interessi contrapposti e le diverse visioni politiche si misurano sulle liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro. Non esistono governi tecnici. Governare non vuol dire eseguire al meglio gli ordini di un’autorità superiore, sia essa europea o internazionale. Eliminare la politica può anche essere l’obiettivo di qualcuno, ma in ogni caso è una menzogna. Chi vuol dare priorità all’articolo 18, tanto per fare un esempio, non può pretendere di spacciare questa scelta come dato tecnico ineludibile.
In questa consapevolezza c’è la scommessa dei progressisti sul governo Monti. Criticarne alcune decisioni, tentare di rafforzarne altre, battersi per taluni obiettivi, misurarsi apertamente con il centrodestra in Parlamento prefigurando lo scontro politico di domani, è il modo migliore per rafforzare la legittimità di questa transizione italiana. Il governo Monti, pur nella sua peculiarità, resta un governo politico secondo la nostra Costituzione. Chi descrive la soluzione tecnica come un eldorado (perché spera di perpetuarla) lavora invece alla delegittimazione della politica. Con lo scopo di tenere l’Italia prigioniera della Seconda Repubblica. E magari in questo disegno sono iscritti anche coloro che gridano all’inciucio per scongiurare l’intesa necessaria ad archiviare finalmente il Porcellum.
Il centrosinistra deve giocarsi la sua partita a testa alta. La sfida è culturale, politica, anche organizzativa. Ma ciò che è necessario è avere un pensiero critico. Anche il nostro campo è attraversato da culture ostili, a tratti persino colonizzato dal pensiero unico. Sarebbe un errore contrapporre la necessaria alleanza con i socialisti europei con l’orizzonte democratico del centrosinistra italiano. La cultura democratica può offrire nel nostro Paese molti strumenti e molte risorse in più nella battaglia contro quell’ortodossia liberista, che resta dominante nonostante il fallimento del 2007. Ma l’impresa non è facile e il tempo è scarso.
C’è un intreccio tra crisi economica e crisi antropologica. Il paradigma individualista sta corrodendo le reti di solidarietà umana e i corpi intermedi. Il declino dei partiti non è solo una questione istituzionale o morale. Nel personalismo della Costituzione e nella costruzione di una nuova idea di pubblico c’è il destino del centrosinistra italiano. Non c’è democrazia senza partiti. Non c’è coesione sociale senza sindacati. Non c’è pluralismo economico senza la cooperazione e il no profit. Non si ricostruisce un «pubblico» forte senza la sussidiarietà. Non c’è libertà individuale se le donne e gli uomini vengono lasciati soli davanti allo Stato e al mercato. Rimettere con i piedi per terra il confronto sul lavoro, dando priorità alla lotta contro la precarietà, è solo uno dei fronti aperti. La stessa partita delle liberalizzazioni ha molteplici ricadute sociali. Ad esempio, il decreto va corretto per evitare una contrapposizione tra agricoltori e distribuzione, con un ingiusto aggravio di costi sulla cooperazione a vantaggio delle multinazionali.
La stessa battaglia di Confindustria sta assumendo un valore generale: il bivio è tra un sindacato degli imprenditori che concorre a un nuovo patto sociale e l’ambizione di farsi partito, scommettendo su un esito oligarchico della crisi. È anche il bivio che ha di fronte l’Italia.

Claudio Sardo
da l'Unità

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