Ma dove stavano tutti questi bravi?
Adesso che la nomina dei sottosegretari ha completato (fatte salve tutte le possibili critiche e riserve) la squadra di governo più competente, esperta e affidabile della storia recente, diventa inevitabile farsi qualche domanda antipatica sul tema.
Intanto c’è il fatto che in queste settimane l’Italia sta scoprendo di avere gente in gamba disposta a prendersi una bella gatta da pelare, e questo riabilita in parte un establishment nazionale di cui si è usi parlare malissimo, dimenticando che nessun paese moderno può funzionare per un solo giorno senza avere un ceto trasversale di comando che a livello pubblico e privato governa, amministra, pianifica, prende decisioni, le trasmette e le applica, si assume responsabilità.
C’è poi da dire che il tema della momentanea separazione, o meglio inversione di ruoli, fra tecnica e politica, può apparire sotto un’altra luce.
Conosciamo quasi tutti i sottosegretari nominati ieri. Ebbene nessuno di loro scende da Marte, quasi tutti (lasciamo da parte quelli più dichiaratamente affini a qualche partito) hanno trascorso una vita professionale lavorando per la politica: dando consulenze, elaborando progetti, trasformando promesse elettorali o compromessi parlamentari in leggi. Se oggi li riscopriamo così bravi, capaci, onesti e affidabili, perché la politica che fino a ieri li impiegava s’è dimostrata tanto inefficace?
Forse il rischio vero, per i partiti, non è nel fallimento dei tecnici del governo Monti, bensì nel loro eventuale successo. Perché se costoro dovessero riuscire dove hanno fallito elefantiaci governi composti a ogni livello da professionisti della politica, si scoprirebbe che il problema-Italia non è tanto nel valore della classe dirigente nel suo insieme, e neanche (non solo) nelle regole farraginose del governo e del parlamento, bensì proprio nella cattiva qualità della irrinunciabile democrazia dei partiti. E se questi ultimi nel frattempo non si fossero radicalmente autoriformati, questa esperienza potrebbe essere l’anticamera della messa in discussione della democrazia tout court.
Intanto c’è il fatto che in queste settimane l’Italia sta scoprendo di avere gente in gamba disposta a prendersi una bella gatta da pelare, e questo riabilita in parte un establishment nazionale di cui si è usi parlare malissimo, dimenticando che nessun paese moderno può funzionare per un solo giorno senza avere un ceto trasversale di comando che a livello pubblico e privato governa, amministra, pianifica, prende decisioni, le trasmette e le applica, si assume responsabilità.
C’è poi da dire che il tema della momentanea separazione, o meglio inversione di ruoli, fra tecnica e politica, può apparire sotto un’altra luce.
Conosciamo quasi tutti i sottosegretari nominati ieri. Ebbene nessuno di loro scende da Marte, quasi tutti (lasciamo da parte quelli più dichiaratamente affini a qualche partito) hanno trascorso una vita professionale lavorando per la politica: dando consulenze, elaborando progetti, trasformando promesse elettorali o compromessi parlamentari in leggi. Se oggi li riscopriamo così bravi, capaci, onesti e affidabili, perché la politica che fino a ieri li impiegava s’è dimostrata tanto inefficace?
Forse il rischio vero, per i partiti, non è nel fallimento dei tecnici del governo Monti, bensì nel loro eventuale successo. Perché se costoro dovessero riuscire dove hanno fallito elefantiaci governi composti a ogni livello da professionisti della politica, si scoprirebbe che il problema-Italia non è tanto nel valore della classe dirigente nel suo insieme, e neanche (non solo) nelle regole farraginose del governo e del parlamento, bensì proprio nella cattiva qualità della irrinunciabile democrazia dei partiti. E se questi ultimi nel frattempo non si fossero radicalmente autoriformati, questa esperienza potrebbe essere l’anticamera della messa in discussione della democrazia tout court.
Commenti
Posta un commento