I tunnel da evitare

Olli Rehn ieri ha detto: «Mi piace pensare che sia don Camillo che Peppone sosterrebbero oggi il governo Monti». Già, sarebbe utile un vero clima di unità nazionale. Ma fra i partiti che appoggiano il governo Monti non è scontato che ci sia quella complicità di fondo che era alla base del rapporto fra i due eroi guareschiani e forse nemmeno quella tensione, dettata dalla doppia emergenza terrorismo-crisi economica, che era alla base dei governi di solidarietà nazionale della metà degli anni Settanta.
Allora Dc e Pci erano d’accordo nel far nascere i governi Andreotti; oggi Alfano, Bersani e Casini “vivono” Monti in maniera completamente diversa (sta qui la radice vera nella difficile comunicazione fra i tre). Questo non è propriamente un governo di unità nazionale né una Grosse koalition. Il che peraltro non esclude che i tre leader adattino i loro comportamenti ad una realtà del tutto diversa da quella precedente.
Basta saperlo. Altrimenti per forza la metafora di questa situazione diventa il tunnel, simbolo angosciante per antonomasia, il veicolo di vergogne inconfessabili, il buio tramite di traffici, lo spazio claustrofobico di Orson Welles nel Terzo uomo. Si sta parlando del tunnel che va da palazzo Madama a palazzo Giustiniani attraversato a tarda sera, secondo alcune testimonianze, da Alfano, Bersani e Casini (ma il trio ABC ha smentito questa ricostruzione) per incontrare il premier.
Se fosse vero, si poteva evitare. Qui ci sono due scuole di pensiero. La prima sostiene che se c’è bisogno di fare un vertice lo si deve fare alla luce del sole, senza vergognarsene, e anzi mettendoci un pizzico di passione e di convinzione in più. ABC potrebbero benissimo dire: sì, ci incontriamo con il presidente del consiglio per concretizzare il nostro impegno a tirare fuori l’Italia dai pasticci in cui si trova. Lo abbiamo detto e lo facciamo, la storia ci giudicherà. A testa alta.
La seconda scuola è opposta, e dice: in una fase anomala come questa è meglio che i partiti facciano un passo indietro lasciando a Monti il compito di governare il paese e limitandosi a sostenerne l’azione attraverso contributi pubblici o informali di ciascuna forza politica. Perché ABC – è il sottotesto – in realtà non possiedono quel comune denominatore che consenta loro di lavorare gomito a gomito. Altro che vertici di maggioranza, altro che “tavoli”, altro (soprattutto) che trattative sui posti.
Si tratta chiaramente di una situazione inedita. Inedita soprattutto per il presidente del consiglio, di cui si può comprendere una certa esitazione di fronte ad una realtà che lo vede capo del governo ma non anche il capo della coalizione: perché, come detto, una coalizione non esiste. Ed è del tutto comprensibile che Monti abbia chiesto e chieda ai partiti chiarimenti e contributi su questa o quella questione e che magari ritenga normale incontrarli tutti e tre insieme. Ma non nella famosa collegialità è l’arma di questo governo. E c’è infatti chi teorizza che Monti dovrebbe costruire rapporti “bilaterali” con ciascuna delle tre grandi forze che gli hanno votato la fiducia in parlamento, dato che l’esecutivo Monti si fonda su “convergenze parallele”: Pd-Monti; Terzo polo-Monti; Pdl-Monti. Questo semmai gli può dare maggiore forza: starà sempre e solo al premier trarre la sintesi finale. Che è come dire che il dominus della situazione è lui. Con buona pace dei tunnel: meglio evitarli, di questi tempi.

Mario Lavia
da Europa

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