Chi non si rassegna

La guerra in corso tra Berlusconi e Tremonti, mentre il G20 è impegnato in un drammatico confronto sulla crisi dell’economia mondiale, mentre l’Europa discute del possibile default della Grecia, mentre il nostro Paese è diventato ormai il bersaglio e la leva di chi vuole far saltare l’euro, dà la misura dei pericoli che corriamo e dell’assoluta inconsistenza del governo in carica.
È un governo che non offre alcuna soluzione. Anzi, è il nostro primo problema. È la zavorra che impedisce ogni tentativo di uscire dal gorgo. Il mondo ci guarda e ci commisera come se fossimo malati gravi. E la nostra malattia non è soltanto Berlusconi: è l’incapacità del sistema politico - plasmato e ingessato dalla Seconda Repubblica - di sostituire un premier quando il ricambio è considerato da quasi tutti come necessario, inevitabile e urgente.
Cos’altro deve accadere dopo che Obama ha omesso di citare l’Italia nella lista degli alleati che hanno contribuito a liberare Tripoli, dopo che Berlusconi ha preferito disertare l’Assemblea delle Nazioni Unite perché nessun leader mondiale era disposto a farsi fotografare con lui, dopo che un industriale italiano ha ammesso che «anche in Madagascar ci prendono in giro»? Cos’altro deve accadere dopo che Emma Marcegaglia ha annunciato il passaggio all’opposizione anche degli industriali italiani? Del resto, poche settimane fa i leader di tutte le forze sociali - imprenditori, sindacati, banche, cooperative, piccole imprese, commercianti - firmarono un documento in cui si chiedeva «discontinuità». Ma a Palazzo Chigi non è successo nulla. E nel frattempo gli indicatori sono molto peggiorati: ora i tassi e gli spread strangolano l’economia reale delle famiglie, delle imprese, dei lavoratori. La minaccia palpabile è la stagnazione che riduce posti di lavoro, la crisi di liquidità delle banche che produce una stretta creditizia per le aziende, l’assenza di investimenti che toglie speranze ai giovani.
I pochi che difendono Berlusconi sostengono che la crisi è mondiale. Ma sono sempre di meno. Perché la crisi è davvero mondiale, tuttavia le dimissioni del governo costituiscono oggi una necessità vitale per tentare di sottrarre il Paese al fuoco della speculazione e raccogliere le energie della ricostruzione. La resistenza di Berlusconi nel bunker sembra ormai non avere altro obiettivo che prolungare l’agonia. Forse però c’è anche il desiderio di logorare gli avversari: approfittando del sistema bloccato, il premier sta tentando di trascinare nel baratro l’intera classe dirigente. Nel ‘94 si era affermato come campione dell’antipolitica assai di più che come alfiere della «rivoluzione liberale» e ora, nel declino finale, torna a giocare quel ruolo.
Viviamo un tempo difficile. Ma i pericoli non devono indurre alla disperazione. La società sta offrendo risposte e segnali che indicano le risorse disponibili alla ricostruzione. C’è un’Italia che non si rassegna. E che promuove solidarietà e coesione, pur nelle ristrettezze. Confindustria e sindacati hanno firmato l’accordo sulla contrattazione, nonostante il tentativo del governo di dividere con l’ascia dell’articolo 8, quello sulla deroga ai diritti del lavoro. Si è trattato di un vero e proprio patto sociale, definito nell’autonomia delle parti in aperto contrasto con la linea del governo. Ciò non vuol dire affatto che sarà facile concertare le priorità delle riforme strutturali necessarie al Paese: ma non è poco quel messaggio di coesione, che richiama una responsabilità condivisa.
Altri segni arrivano dalla società. Gli insegnanti e i genitori che già sono al lavoro per tentare di sopperire, con la loro opera, ai drammatici deficit della scuola. Le donne che ieri sono tornate a manifestare per il rispetto della Costituzione. Gli studenti che si stanno riorganizzando tenendo insieme il diritto allo studio al tema della precarietà. Il popolo che oggi marcerà per la pace tra Perugia e Assisi, mostrando ancora una volta come la partecipazione sia la linfa vitale della democrazia. Questione sociale e questione democratica non possono essere trattate separatamente: altrimenti non avremo mai la forza di uscire da quel paradigma liberista che ci ha fatto precipitare nella crisi e neppure di ripensare a una politica capace di progetti.
Anche l’Italia che non vuole più Berlusconi è a un bivio: abbandonarsi alla rassegnazione di un individualismo protestatario oppure scommettere, con pazienza e tenacia, sulla tessitura di reti di solidarietà e coesione. Si può fare opposizione costruendo, tenendo viva la passione per un Paese che merita di più e dove in tanti - aziende, lavoro, volontariato, ricerca - si battono quotidianamente per far tornare l’Italia in seria A. È l’animo dei costruttori che ci permetterà di affrontare i sacrifici del dopo Berlusconi. Che ragionevolmente non tarderà a venire.

Claudio Sardo
da L'Unità

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