Non abbandoniamo il Risorgimento ai servi

Il 150esimo Anniversario dell’Unità nazionale cade in un momento disgraziato. A celebrarlo sarà infatti una classe politica non solo indifferente o addirittura ostile agli ideali del Risorgimento, ma anche in larga misura semplicemente incapace, per mancanza di adeguata preparazione culturale e di animo meschino, di capire quelle vicende, quelle donne e quegli uomini. Lo stato penoso di molti dei progetti legati alle celebrazioni, come ha documentato assai bene Marco Lillo (Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio) è lo specchio fedele di questa triste realtà.
Queste considerazioni forse impietose ma facilmente documentabili, valgono in primo luogo per Berlusconi e la sua corte, ma toccano anche molta parte dell’opposizione. Se è vero che Berlusconi non sa neanche che cosa sia il Risorgimento (e ha dichiarato di prediligere piuttosto l’antirisorgimento) e Bossi lo detesta con tutto se stesso, è del pari vero che fuori dalla corte non ci sono partiti o forze politiche che hanno le loro radici nella lotta per l’Unità nazionale o che ad essa si sono collegati idealmente. I repubblicani, per citare l’esempio più ovvio, si distinguono per essere fra i servi più zelanti del signore, mentre il Partito d’Azione, che cercò di essere l’erede del Risorgimento, viene quasi sempre denigrato o deriso.
In siffatta situazione il buon gusto e un minimo senso della decenza impongono di tenersi il più possibile lontani dalle celebrazioni in cui si esibiranno Berlusconi o i personaggi della sua corte. Dei servi che commemorano uomini e donne che hanno lottato e si sono sacrificati per la patria e per la libertà comune sono uno spettacolo ripugnante e diseducativo. Un’orazione di Bondi, o Cicchitto o Dell’Utri o Casini, su Garibaldi, Mazzini, Cavour o i Martiri di Belfiore, non la imporrei neanche al mio peggior nemico.
Al tempo stesso è doveroso e politicamente saggio promuovere iniziative alternative nelle quali prendano la parola persone serie (ce ne sono ancora tante, per fortuna) che con i loro comportamenti hanno testimoniato di avere a cuore il bene comune della patria e non il loro potere o il loro conto in banca. Abbiamo un dovere di gratitudine verso chi si è sacrificato per l’Unità e per l’indipendenza. Un popolo di ingrati non può che vivere servo, perché non ha le energie morali necessarie per difendere o per riconquistare la libertà. Celebrare con le persone giuste e in modo serio il Risorgimento è dunque un modo intelligente per difendere la nostra libertà e la nostra dignità di cittadini.
Il nostro Risorgimento, lo ha ribadito Paul Ginsborg, (Salviamo l’Italia, Einaudi, 2010) ha elaborato l’ideale della “nazione mite” che non discrimina, ma accoglie e rispetta le altre patrie. Il nazionalismo che prese piede in Italia agli inizi del Novecento e trovò nel fascismo la sua espressione ideologica e politica compiuta, non era l’erede legittimo, ma il più infame tradimento degli ideali del Risorgimento. Così come il federalismo leghista è l’antitesi del federalismo di Cattaneo, il quale riteneva, fa bene Ginsborg a citare questo bel passo, che la virtù non fosse esclusiva prerogativa di un’unica nazione o di un singolo gruppo etnico: “Barbaro può suonare quanto tedesco quanto francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi”.
Vale anche la pena di ricordare che i personaggi di maggior rilievo del nostro Risorgimento avevano animo mite, anche quando erano formidabili combattenti. Non mancarono certo fra i patrioti, nota Ginsborg, figuri che si distinsero per la loro crudeltà e disumanità. Ma le descrizioni di Mazzini, Settembrini, Santorre di Santarosa, Goffredo Mameli e tanti dei Mille ci restituiscono l’immagine di persone “che mostravano compassione in battaglia e, deposte le armi, la dolcezza poteva tornare in campo, nella vita come nella morte”. “Mite Giacobino” era poi chiamato, è bene ricordarlo, Alessandro Galante Garrone, mentre Norberto Bobbio, l’altro grande erede della tradizione azionista, scrisse uno splendido Elogio della mitezza.
Alla “nazione mite” si sono ispirati i migliori esponenti dell’antifascismo. Carlo Rosselli (ecco, insieme a Nello e ad Amelia, a chi dovrebbe essere dedicata una grande iniziativa celebrativa nell’ambito delle manifestazioni del 150 anniversario), ad esempio, considerava la patria del Risorgimento non l’antitesi, ma il fondamento dell’internazionalismo e la base preziosa della futura Europa democratica costruita dal basso. E in nome della patria mite (che non vuol dire né docile né debole) è possibile oggi unire molte forze sociali e intellettuali per contrastare il degrado civile che ci soffoca.
La nostra storia è lì ad insegnarci – s’intende a chi ha la grandezza d’animo e l’umiltà di voler imparare – che le conquiste di libertà sono sempre state realizzate non contro, ma con l’idea di patria. Mai come in questi tempi abbiamo bisogno dell’idea di patria. L’esperienza del presidente Carlo Azeglio Ciampi dimostra che quando ascoltano persone degne parlare di patria, gli Italiani capiscono e sentono la bellezza di quell’ideale e sono pronti ad operare. Non dobbiamo lasciare il Risorgimento ai servi.

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