Consigli al Pd: non fate come il PdL

Il rifiuto del dialogo può condurre proprio al punto di non ritorno

La riflessione politica che è arrivata in questi giorni da Walter Veltroni per ciò che riguarda lo stato dell’arte del suo partito parte da un dato certo: il Partito democratico, nel peggior momento per il dirimpettaio Popolo della libertà, è appena sopra il 24% dei consensi. Tradotto: non riesce a crescere. È fermo, stagnato. Agisce, quando può, di rimessa. E, cosa più grave, questa situazione fa crescere la popolarità dei diretti competitori: dai giustizialisti come Antonio Di Pietro ai tribuni dall’eloquio suadente come Nichi Vendola.
Si può discutere (per lo meno così è stato fatto) sull’utilità, la necessità o meno di un documento, con tanto di sottoscrizione, che mette in discussione il profilo del partito in un momento del genere. Ma è un fatto incontrovertibile che sarà pure un grosso problema se il maggior partito di opposizione non riesce ad approfittare della crescente difficoltà del proprio avversario politico. Segno che, e questa è la riflessione da cui prende corpo la proposta di Veltroni, c’è qualcosa che non va nella proposta del Pd, nel suo profilo e nel messaggio all’elettorato.
Del resto, quello che è stato denunciato da Veltroni (di cui, come ovvio anche lui stesso è responsabile essendo stato un fondatore del Pd e leader dimissionario) al popolo democratico è chiaro da tempo: manca una prospettiva unitaria sulle riforme, la vocazione maggioritaria scricchiola, le alleanze sono meno chiare del programma ma soprattutto non si sente quella “narrazione” che è stata il segreto del successo della prima stagione di Romano Prodi.
Le reazioni interne al documento proposto dell’ex segretario, però, sembrano dettate più dall’irritazione che dalla voglia di entrare nel merito delle questioni: è stato dichiarato inopportuno, lacerante, correntista. Ma nessuno dei critici, fino a questo momento, è entrato all’interno delle questione. A meno che la scelta del questionario spedito ai militanti voluta da Pier Luigi Bersani (una sorta di customer satisfaction sul Pd e il suo segretario) sia la scossa così desiderata. Perché questa sembra, con tutto il rispetto, un po’ debole come risposta e in linea più con la cultura dei sondaggi del premier che con quella della storia della sinistra italiana.
A questo punto, però, balza un terribile dubbio. Non è che anche dalle parti dei democrats stia nascendo la stessa sindrome che ha colpito il Pdl? Quella che scambia il dibattito come complotto e la differenza come eresia? Sì, perché il rischio di esasperare così i toni dopo l’uscita di Veltroni tanto da parlare di «favore fatto a Berlusconi» e cose simili alla lunga porta a questo: alla tentazione della scissione, magari non della cacciata ma per lo meno dell’isolamento dell’avversario che diventa così nemico. Anzi, peggio, traditore.
Lo abbiamo scritto appena un mese fa da queste pagine: il Pd, nonostante le sue parrocchie e i suoi tic, è un partito che fino a questo momento (anche pagando un prezzo alto in termini di unità) non ha rifiutato il dialogo e non ha mai praticato la caccia alle streghe. Ragion per cui, farsi prendere dalla tentazione di copiare i cugini del centrodestra proprio in quest’ambito non sembra davvero un’idea geniale né politicamente appetibile. Visti i risultati poi…

Antonio Rapisarda
da Farefuturo

Commenti

  1. Ma guarda te se dobbiamo ridurci così male da dover ricevere consigli da quelli del Centrodestra!!! Bersani, Veltroni, Franceschini, Codurelli, Rusconi: andatevene a casa!!! Avete fallito!!! Non siete degni di rappresentarci!!!

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